“Certo che già è difficile, poi con tutte ‘ste parole incomprensibili…”
A chi non è successo di pensarlo, mentre cercava di capire come rendere più sostenibile l’azienda per cui lavora?
Noi siamo una giovane start-up, ma ci è bastato poco tempo per capire che, nel percorso che vogliamo costruire con le organizzazioni, c’è sempre un grande ostacolo, soprattutto all’inizio: il linguaggio.
La sostenibilità è importante, bisogna agire in fretta, un bilancio di sostenibilità è uno strumento di valutazione, di azione e di comunicazione. Sui valori e sulla direzione, per fortuna, non c’è molto da discutere.
Quando si scende sul piano pratico, però, bisogna farsi capire, bisogna far comprendere all’altra parte come sarebbe meglio agire e perché. Ed è lì che nasce il problema.
Perché molto spesso, per chi non lavora direttamente nel campo della sostenibilità (come chi dirige un’azienda) provare a informarsi su questo tema può essere come addentrarsi in una giungla di terminologie scientifiche, parole in inglese, acronimi o riferimenti a norme che rendono difficile comprendere ciò che si sta leggendo.
Questo succede in tutte le discipline, certo, ma nel caso della sostenibilità, visto che le azioni da intraprendere possono andare a toccare anche l’ambito degli investimenti e delle performance di un’azienda, è meglio fare chiarezza.
La chiarezza, la trasparenza, l’ordine, sono concetti che hanno molto a che fare con la sostenibilità perché servono ad arginare l’entropia: più gli elementi sono mescolati tra loro, più si genera entropia; più il sistema è entropico, meno è sostenibile.
L’enorme quantità di informazioni caotiche e contraddittorie su questo tema rende complesso distinguere concetti e priorità. Se riusciamo a organizzare e rendere fruibile questa massa di dati, sarà possibile comprendere temi con effetti significativi sul futuro dell’organizzazione, della società e del pianeta. Al contrario, se l’informazione rimane disordinata, non riuscirà a raggiungere il suo scopo e rischierà persino di fuorviare.
Gli acronimi sono un ottimo esempio: sotto un’apparente semplicità, funzionale a pronunciare e scrivere in maniera più veloce una serie di parole, rischiano di non far emergere il vero significato di ognuna.
Perché negli acronimi, come nell’informazione, come nelle organizzazioni, niente è monodimensionale, ma i vari livelli ed elementi si incontrano e si influenzano a vicenda.
E infatti uno degli acronimi a cui tutti facciamo riferimento in tema di sostenibilità è ESG: Environmental (ambiente), Social (società), Governance. Sono le tre dimensioni su cui le organizzazioni innanzitutto devono considerare per raggiungere i propri target di sostenibilità e non è possibile avere buoni risultati su una tralasciando le altre.
Per analizzare gli obiettivi di sostenibilità di un’azienda, generalmente si fa riferimento a due approcci:
- win-win: la sostenibilità dell’impresa sta nell’intersezione delle tre aree e quindi gli aspetti di sostenibilità economica, ambientale e sociale possono essere raggiunti simultaneamente
- trade-off: è impossibile raggiungere contemporaneamente due o più obiettivi, quindi bisogna soppesare una perdita in almeno una dimensione contro un guadagno nelle altre.
La differenza tra i due approcci sta nel fatto che con il primo si rischia di porre obiettivi meno ambiziosi, ma si riduce il livello di conflittualità, mentre con il secondo il livello di conflittualità delle parti è più alto, ma gli interventi possono dimostrarsi più radicali. Di fatto, però, non c’è un approccio più corretto di un altro, poiché entrambi riescono a far compiere passi avanti lungo la strada verso la sostenibilità. E questi passi devono essere correttamente valutati e rendicontati.
Per farlo, uno dei metodi è seguire il GRI standard (sì, altri acronimi): gli standard definiti dal Global Reporting Initiative, un ente internazionale senza scopo di lucro. Sono un punto di riferimento a livello globale per permettere alle organizzazioni di misurare e comunicare, con il massimo livello di trasparenza, le performance in termini di sostenibilità.
Ma, andando al cuore pratico della questione, perché un’azienda dovrebbe preoccuparsi non solo di intraprendere un percorso di sostenibilità, ma anche di rendicontarlo? A livello normativo l’obbligo non c’è, però possiamo spiegare perché dovrebbero farlo attraverso un paragone con qualcosa di più grande.
A fine 2023, si è conclusa la COP28 (Conference of Parties, a proposito di acronimi…), la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNCCC). Al termine di ogni COP, viene stilato un accordo politico sugli impegni che le nazioni si assumono per intensificare l’azione globale volta a ridurre la crisi climatica. Non si tratta di definire nuove leggi, ma di accordarsi per lavorare sul piano di una responsabilità condivisa per il raggiungimento di un obiettivo comune.
Allo stesso modo, quello che si chiede alle aziende non è di seguire regole precise, ma di essere consapevoli della propria CSR (Corporate Social Responsibility), ovvero la responsabilità di integrare, su base volontaria, politiche aziendali a tutela della società e dell’ambiente.
Volontarietà e responsabilità, nel campo della sostenibilità, sono concetti chiave: se infatti, in questo momento, non esiste nessun vincolo legale sovranazionale a intraprendere una transizione sostenibile, l’Unione Europea ha reso obbligatorio che le aziende rendano pubbliche le azioni e i risultati che scelgono o non scelgono di perseguire, consapevoli che i dati condivisi potranno avere ripercussioni sull’immagine e la reputazione dell’azienda stessa.